Nella nostra scuola, musicisti più piccoli dei loro strumenti diventano giganti!

Sto camminando per i corridoi e ad un tratto mi sembra di percepire una soave musica nell’aria. Appurato ed escluso che tale incanto non è stato prodotto dalla peperonata mangiata il giorno prima, rimango incuriosito. Non è lo stereo della Clio del tamarro che passa su corso Cosenza con il finestrino aperto, né è la prof.ssa Foco che sta facendo ascoltare con il suo piccolo stereo un anglofono listening.

La curiosità cresce e cerco quindi di seguire la scia della musica. Scendo le scale, inseguo le note e mi rendo conto che tale melodia arriva dai sotterranei dell’Agnelli. Giuro, non sono in un film horror: è tutto vero. Entro in un corridoio buio poco illuminato e c’è una porta chiusa di metallo blu. Dietro di essa si cela l’arcano.

Provo educatamente ad aprirla e…

vengo travolto da un forte vento armonico che mi avvolge.

Entro e vedo davanti a me tanti piccoli virgulti delle medie, con strumenti musicali più grandi di loro.

Suonano! Sono loro! Non uno stereo, non un film proiettato ad alto volume, sono loro.

Incuriosito quindi, provo a superare il mio imbarazzo iniziale e vedo il prof. Aldo Marietti che dirige la lezione;  allora con la mia proverbiale faccia di bronzo chiedo se posso interromperla per qualche minuto per confrontarmi con questi giovani musicisti e… rimango a bocca aperta!

Chiedo loro chi sono e subito Miriam mi risponde con una maturità inaspettata, che sono la II D, una classe speciale delle nostre scuole medie (…scusate, Secondarie di Secondo grado). Essi, parallelamente alla formazione canonica che il Ministero richiede, sviluppano un potenziamento, sia pratico e sia culturale, nell’ambito musicale. La nostra scuola ha creato negli ultimi anni una proficua collaborazione con l’Associazione “MozArt” di Torino, una particolare scuola di musica molto eclettica e questi ragazzi sono i preziosi frutti di questa positiva Joint Venture.

Chiedo loro quindi, in cosa differiscano dalle altre canoniche classi e subito, senza colpo ferire, si dimostrano disponibili al dialogo. Riccardo mi racconta che, a differenza dei suoi coetanei che solitamente ascoltano la musica passivamente, loro, avendo maturato una vera passione, per provare emozioni maggiori, hanno deciso di SUONARE.

Scopro che molti di loro suonano da tempi immemori. Sofia, con atteggiamento tronfio, inforcando la sua Gibson Diavoletto, mi dice che suona dalla scuola materna: probabilmente nemmeno sapeva coniugare i congiuntivi ma già conosceva cosa fosse un fa diesis.

Continuo quindi, con l’autorizzazione degli insegnanti, a parlar con loro e, sentendomi un sassolino davanti al K2, provo ad elaborare una domanda professionale… perlomeno, ci provo:

“Ma… (me la tiro anche un po’) come siete arrivati nella vostra “lunga” vita, ad avere e saper tenere in mano uno strumento? Come la musica è diventata parte integrante della vostra formazione?”

Loro, con estrema naturalezza e professionalità, mi rispondono con una semplicità disarmante.

Alcuni di loro hanno in famiglia genitori musicisti e sono cresciuti alla loro ombra; altri come Amanda, da gran professionista, con la cassa armonica del suo rosso strumento sulle gambe e accarezzando le corde con la stessa naturalezza di un Ben Harper davanti al tramonto, mi racconta che, fin da piccola, è vissuta in una casa con mille impianti stereo e che i suoi genitori l’hanno cresciuta con una costante e avvolgente musica che spazia dal Rock al Metal. Persino le sue ninnenanne erano pezzi dei Metallica!

Vedendo quindi, che il gruppo risponde in maniera positiva, provo ad essere più pungente e chiedo loro se valga la pena dedicare ore e ore al proprio strumento, e che valore abbia oggi imparare e faticare per produrre una certa opera a discapito dei moderni metodi di fare musica, partendo dal presupposto che un pianista, un chitarrista, un violinista fa mille volte più fatica di un semplice “cliccatore di pulsanti”.

Dico la verità, ho un po’ cercato di fare il cosiddetto “avvocato del diavolo” sfidando la loro posizione con un fare eccessivamente provocatorio, e anche in questo caso, questi musicisti hanno reagito in modo impeccabile.

Riccardo mi guarda e dopo una breve pausa mi dice:

“ Vede… ad un orecchio forse non esperto il prodotto finale tra una nota fatta dal computer e una fatta da me (guarda il manico del suo basso) sembra forse uguale. In realtà la differenza che arriva alle mie orecchie è enorme. Magari la massa non se ne accorgerà ma me ne accorgo io. Io vedo le differenze

 A difesa della tesi precedente ribatte in controtempo Fabrizio da dietro la sua batteria:

 “Schiacciare i pulsanti permette certamente di fare musica, ma lo fa un computer. Arrivare ad un certo prodotto di qualità comporta fatica e poi con i pulsanti è facile. Io devo scatenarmi, io devo lavorare per raggiungere tali risultati. Sara certamente più complicato ma ne vale la pena!”

Rimango estasiato dalla loro piccola età commisurata alla grande maturità che emerge dalle loro affermazioni. Sembrava quasi di sentire un sommelier che cerca di spiegare a degli ignari astemi le differenze tra un Barolo invecchiato e un semplice vino da tavola. Agli occhi di molti, ad uno sguardo inesperto, sempre di vino si parla. Eppure la conoscenza in un ambito permette di coglierne anche le più piccole sfumature e apprezzarne le differenze, comprendendone appieno i lati positivi e riconoscendone le differenze qualitative.

Concludo l’intervista, li ringrazio e chiedo scusa se mi sono permesso di aver fatto loro perdere tempo con le mie domande.

Torno quindi a casa, accendo la radio della mia macchina e l’autotune di un cantante TRAP prende la scena…

Non so perché, ma istintivamente, senza pensarci, spengo la radio.

Nel silenzio ripenso alla grazia con cui quei bambini tenevano sulla spalla il proprio violino, alla bellezza delle ragazze dietro la loro maestosa Fender, la compostezza delle loro dita adagiate sopra le loro tastiere, gli occhi vividi e divertiti a difendere una passione, la quale probabilmente li farà diventare grandi, in qualsiasi campo.

Suonavamo perché l’Oceano è grande, e fa paura.

Suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era e chi era.

Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire

…e ti senti Dio.

(Novecento, Alessandro Baricco)

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